Una buona notizia
L’aspettativa di vita è tornata a crescere, superando l’impatto della pandemia. Eurostat ha calcolato una media europea salita a 81,7 anni, ma in Italia e in Svezia si arriva a 84,1 anni. “La questione centrale, però, è la qualità” osserva Alessandro Rosina sul Sole 24 Ore del 20/09/25, ricordando che si sta spostando avanti l’età in cui si entra in quella anziana. Dobbiamo cogliere la sfida di vivere bene a lungo, attivi e in buona salute, anche perché secondo gli scenari previsivi dell’ISTAT la popolazione over 65, oggi pari al 24,3% del totale, aumenterà di altri dieci punti d’incidenza nei prossimi 25 anni, raggiungendo il 34,6%. “Che l’italiano ‘tipo’ sia un settantacinquenne è ormai scritto nel futuro prossimo del nostro paese”, ribadisce Rosina, aggiungendo che solo se saranno tutti ancora attivi e in buona salute “avremo messo le basi di una società della longevità”. Da qui l’esortazione: “smettiamo di preoccuparci delle quantità (non ci possiamo fare nulla) e investiamo sulla qualità (qui c’è molto da fare)”.
Un’opportunità
L’articolo di Rosina è un bell’esempio di demografia positiva, il nuovo orientamento di gran parte degli studiosi italiani. Basta con l’ottica esclusivamente pro-natalista. Prima di spiegare in cosa consista è bene rispondere al suo perché. I curatori dell’ultimo Rapporto sulla popolazione edito da Il Mulino, Daniele Vignoli e Anna Paterno, affermano che “stiamo vivendo una transizione verso una fase nuova e qualitativamente diversa – non necessariamente migliore o peggiore”. È inutile continuare a guardare con preoccupazione a una piramide demografica con la pancia piatta e le spalle curve, ovvero con sempre meno attivi e sempre più inattivi. Bisogna trovare il modo per assecondare il raggiungimento di nuovi equilibri. Nel non detto c’è anche una consapevolezza paradossale; se improvvisamente s’impennasse la natalità, tutto il sistema potrebbe andar ancor più in crisi. Questo non vuol dire che bisogna accettare il declino. Il calo della natalità, purtroppo, è sempre più rapido: dai 400 mila nati in Italia nel 2021, la riduzione è stata di 10 mila bambini all’anno nei tre anni successivi, raggiungendo i 370 mila nati nel 2024. Sulla base dell’andamento delle nascite nei primi mesi del 2025 la proiezione a fine anno è di 30 mila bambini in meno in un solo anno, raggiungendo il nuovo record negativo di 340 mila nuovi nati. È ovvio che bisogna sostenere la natalità, aiutando chi vuole avere dei figli. Tuttavia, se per una particolare congiunzione astrale nei prossimi tre o cinque anni tutti i parti fossero gemellari, riportandoci sopra i 600 mila nati all’anno, sarebbe assai difficile farvi fronte. Stante la pancia piatta della nostra piramide un improvviso baby boom farebbe esplodere il tasso di dipendenza complessiva – il rapporto tra popolazione inattiva, perché troppo giovane o troppo anziana, e la popolazione attiva, tra i 20 e i 64 anni. Oltre al picco delle pensioni, determinato dalla prossima quiescenza dei boomers, tra cui chi scrive, e alla necessità di realizzare nuove RSA, bisognerebbe moltiplicare gli asili nido, le scuole materne, poi le elementari e così via. Ecco perché invece di invocare un nuovo quanto improbabile baby boom è meglio pensare a come trasformare la longevità in opportunità.
Guardando al bicchiere mezzo pieno
È qui che torna in campo la demografia positiva. Personalmente preferirei qualificarla come pro-positiva per enfatizzare il carattere di proposta che si aggiunge all’ottica più serena su un avvenire in parte già determinato dalle scelte e le non-scelte del passato. Da quelle private sul se e quando fare un figlio, su cui ha pesato tanto l’economia quanto la cultura, a quelle pubbliche, arrivate troppo tardi e con troppe omissioni a occuparsi del sostegno alla genitorialità. Che fare, quindi, se non guardare al bicchiere mezzo pieno. Per esempio, cogliamo l’opportunità di ripartire le risorse pubbliche su un minor numero di bambini; a parità di budget di spesa ognuno di loro potrebbe ricevere maggiore attenzione, migliorando la loro istruzione e favorendone il prolungamento fino all’Università. Puntiamo a creare dei circoli virtuosi invece di soccombere, per inerzia e cattiva volontà, a quelli che si muovono in senso opposto. Certo, una popolazione che invecchia mette in tensione il sistema sanitario, ma è ormai chiaro che l’allungamento della speranza di vita è una conseguenza di migliori stili di vita rispetto al passato. Questa è la strada da proseguire. Come afferma Silvio Garattini in modo competente ed esemplare, coi suoi 96 anni, “prevenzione è rivoluzione”. Qui c’è lo spazio d’innesco per un circolo virtuoso: nelle maggiori risorse educative da destinare ai nostri pochi giovani deve trovare finalmente spazio la formazione alla salute. Prendiamo esempio dagli altri: come ricordato all’inizio, anche la Svezia vanta una speranza di vita in aumento e simile alla nostra. Tutto frutto della prevenzione che è l’elemento cardine del loro sistema sanitario. Anche da loro i medici sono pochi e gli ospedali pesano sulle finanze pubbliche, ma non sono intasati perché, come dice l’antico detto, ‘prevenire è meglio che curare’. Uno degli istituti in cui si realizza la prevenzione, in Svezia, è l’infermiere scolastico, il quale svolge un ruolo formativo e di profilassi.
Una responsabilità individuale e collettiva
Capire che l’allungamento della speranza di vita è la conseguenza delle nostre abitudini, più o meno salubri, come non fumare e fare attività fisica, serve a inquadrare correttamente il fenomeno in sé e per sé. L’allungamento della vita non è qualcosa di acquisito nei nostri geni, come se fosse una nuova caratteristica evolutiva. La nostra biologia non è (ancora) cambiata. Anche i nostri nonni avrebbero vissuto più anni, in media, se avessero potuto godere come noi dei vaccini e dei farmaci antipertensivi. Questo ci deve portare a interpretare correttamente le esemplificazioni del tipo: i 35 anni del passato equivalgono agli attuali 50-55 anni; i 70 anni di ieri saranno come i 90 di domani. È un modo per sottolineare come si possa continuare a fare in età più tarda ciò che prima si smetteva di fare in età più giovane. Non significa che certe scadenze fisiologiche vengano prorogate. L’insorgenza della canizie avviene ancora tra i 35 anni e i 40 anni, così come avveniva in passato. L’artrosi, nei soggetti predisposti, bussa alla porta tra i 50 e i 60 anni, come è sempre avvenuto. Le donne continuano ad andare in menopausa tra i 49 e i 52 anni con la riduzione degli estrogeni e gli uomini nello stesso periodo vedono ridursi progressivamente la produzione di testosterone. I cambiamenti ormonali e metabolici continuano ad influire sul vigore e sull’aspetto, sulla nostra neurologia (la memoria) e sul nostro apparto sensoriale (la vista e l’udito), quindi sulla personalità. Tuttavia, se si opta per la prevenzione giusta e le corrette abitudini di vita, il ritmo di questi cambiamenti col relativo decadimento funzionale viene distribuito gradualmente sull’arco della vita anziana, invece che procedere a scatti repentini. Lasciando a noi che invecchiamo ampi spazi di autonomia e creatività. Non è un destino acquisito, ma che bisogna assecondare. Implica una responsabilità, individuale e collettiva. Per questo la demografia pro-positiva ci esorta a non metterci da parte troppo presto e invita la politica a fare altrettanto, puntando sulla qualità più che alla quantità.
Michele Tronconi