I déjà-vu della storia

on 21 Aprile, 2025

Dal 2007 ad oggi siamo stati colti di sorpresa da eventi che pensavamo appartenere al passato: la grande recessione, la pandemia, il ritorno dell’inflazione. Abbiamo ripreso in mano i libri di storia per capire cosa si fosse fatto per porvi rimedio, o per evitare di ripetere gli errori. Eccoci di fronte al nuovo ordine del giorno: la fine della globalizzazione. Come vivevamo quando non c’era ancora? Cosa è meglio fare quando riaumenta la divergenza nei prezzi delle materie prime tra mercato domestico e quello internazionale? Perché questa è la globalizzazione, da un punto di vista prettamente economico: l’ampio volume degli scambi che porta alla convergenza dei prezzi. Tutti elementi assicurati dalla limitatezza degli ostacoli tariffari, dalla presenza di regole condivise (WTO) e dall’abbassamento dei costi di trasporto, a loro volta garantiti da una potenza egemone con la sua valuta quale riferimento per gli scambi. Infatti, le due grandi fasi di globalizzazione della storia contemporanea si sono sviluppate, dapprima sotto l’egemonia inglese (pax britannica), tra il 1870 e 1914, poi nel secondo dopo guerra sotto l’egemonia degli Stati Uniti (pax americana). È quella che oggi si è definitivamente chiusa per colpa di Trump. Non vuol dire che smettano le interdipendenze, né che perda d’importanza il commercio internazionale. Un paese povero di materie prime, come il nostro, dovrà continuare ad approvvigionarsi all’estero, esportando le sue produzioni per tenere in equilibrio la bilancia commerciale. Di nuovo la domanda: quali sono le opzioni più favorevoli quando i mercati tornano a vestire l’abito di arlecchino e al multilateralismo si sostituiscono numerosi accordi bilaterali? Innanzitutto, partecipare a un grande blocco, perché si ha maggiore potere negoziale. Non è quello delle armi, in cui siamo svantaggiati, ma quello dei tanti consumatori e dei tanti produttori europei. Occorre ribadirlo: far parte del Mercato Unico è la nostra principale ancora di salvezza. Certo, non è l’unica, ma dobbiamo fare attenzione a non sminuirla, o peggio denigrarla, e fare gioco di squadra. Un’altra ancora di salvezza si chiama produzione interna. A suo favore, più che sussidi, servono meno vincoli. Inoltre, c’è bisogno di infrastrutture efficienti per assicurare energia pulita e a basso costo. Senza non si può ottenere successo nel manifatturiero, ma neanche nell’intelligenza artificiale, né si possono garantire i necessari livelli occupazionali, o adeguate remunerazioni. Con la globalizzazione bastava dare priorità al consumatore, mentre da qui in avanti tornerà la preoccupazione di dare a tutti un reddito da lavoro per poter spendere. Rimane centrale l’ottica europea perché all’inevitabile ridimensionamento delle catene globali di fornitura dovremo contrapporre il rafforzamento delle filiere comunitarie. Magari riportando a bordo la Gran Bretagna e coinvolgendo i paesi che si affacciano al mar Mediterraneo (Paneuromed), fino a raggiungere il continente Africano (Piano Mattei). Fatto tutto questo, saremo salvi? Non del tutto e non per sempre. Senza globalizzazione e con l’inverno demografico il rischio inflazione resterà costante. Prepariamoci, tenendoci vicini i pochi giovani che formiamo e ridando slancio al dialogo sociale. A patto, ovviamente, di non ripetere gli errori del passato.  

      14/04/2025                                                                                                Michele Tronconi 

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